La chiamo al telefono, la tipa della festa, la
Filosofa. Ha una voce calda e disponibile, e sarebbe bello a questo
punto capire cosa mi spinge a cercarla.
Ci vediamo a Piazza Padre Pio, ci salutiamo un po’
freddi e ci sediamo ad una panchina scacazzata. Siamo un po’
imbarazzati, un po’ con l’aria dei non so bene cosa dire. Lei mi
appare in una luce diversa adesso, forse perché sto meno floscio
della sera della festa e soprattutto non mi puzzano le ascelle. Non
riesco a ben dialogare con lei, ha una scioltezza di linguaggio ed
idee che mi mettono con le spalle al muro. Le sue domande sono
introspettive, e io, che pure ho fatto cinque esami all’università
prima di mollare (era sempre lo stesso esame mollato cinque volte)
deglutisco parecchio prima di risponderle. Le sue parole mi entrano
ovattate nelle orecchie, inquinate dai rumori caotici della sera
primaverile foggiana. Lei parla parla, dei suoi esami all’università
(non mollati), del suo modo di vedere la vita, del suo modo di
interpretare me. E non riesce ad interpretarmi a dovere, che non è
facile debbo dire. E infatti me lo chiede, così, a crudo.
Cosa voglio da lei?
No perché lei, ci tiene a puntualizzarlo, non è
proprio la persona adatta ad una storiellina toccata e fuga. L’avevo
capito subito, sai?, sai che ti avevo già inquadrata come sei da
quella sera alla festa?
Mi ha già messo in crisi.
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