Accavallo le
gambe molli, angustiate dalla scomoda posizione che assumo sulla
sedia sul bar sulla piazza. Il cameriere m’ha portato l’ennesimo
bicchiere di sbando alcolico: due sorsi buttati giù di malavoglia +
giocherellamento col rumore stintinnante del cubetto di ghiaccio,
tintintin tintintin, come campanelle che suonano a morto.
Mi viene da
ridere, ma cerco di risparmiare queste energie residue. La piazza è
bella, il bar è bello, il cameriere è bello ma sconvolto nel suo taglio capelli schizzato, questa
serata è bella, questo finale è bello anche se non studiato nei
minimi particolari. Lo confesso: non avrei voluto finisse così.
Sfuggire alla fine di questa relazione è peggio che starsene ad aspettare: aspettare che? Da tempo sono schiacciato, compresso, paradossalmente distante da me stesso. Da tempo sono rintanato in un fottuto castello costruito per aria, troppo anche per uno remissivo come me.
Inspiro
forte, il cameriere che non mi molla un attimo con lo sguardo. La mia puzza ascellare si confonde con l'odore di drink fresco che il bar emana. Vorrei che lei arrivasse presto, che mi
rasserenasse con i suoi modi allentati, con il suo look da matrona prossima alla pensione.
Non verrà:
dovrò andare a prenderla di peso e spaccarle la testa in due, per farci
entrare dentro la parola Fine.
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